Commenti ad alcune letture della messa della notte e del giorno
Messa della Notte (Is 9; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14)
La prima lettura è una delle grandi visioni del profeta Isaia. Dopo un capitolo disastroso come Is 8, in cui si annunciano giorni oscuri, in cui il popolo, oppresso dai nemici, maledice il re e Dio e non vede che angustia e oscurità senza scampo, ecco che si prospetta invece, in fondo al tunnel, una speranza. Per spiegare la gioia di quel momento, il profeta cerca alcune immagini. La prima è quella dell’alba, un paese di tenebre viene riempito di luce. La seconda è invece l’idea della mietitura: come nel giorno della raccolta, la gioia sospinge il lavoratore ad operare, ed egli neanche avverte più la fatica perché, almeno in questo giorno, la ricompensa è immediata. Finalmente si lavora con un ritorno che è esattamente il frutto dei raccolti. L’altra immagine, più militaresca, dice la stessa felicità: la guerra finisce e i vincitori si possono spartire il bottino.
Il profeta Isaia riprende poi anche episodi biblici per ricordare ai suoi ascoltatori i momenti in cui tale felicità era già stata provata e vissuta dal popolo d’Israele. Il ‘giorno di Madian’ è una ripresa di Gdc 7,16-23. Guidati da Gedeone che ordina loro di suonare i corni di notte, nel momento del cambio della guardia, Israele aveva ottenuto una grande vittoria senza alcuna fatica (“21Per quanto gli Israeliti restassero fermi, ciascuno al suo posto intorno all’accampamento madianita, in questo era tutto un correre, un vociare, un fuggire. 22 Mentre quelli suonavano le trecento trombe, il Signore fece volgere la spada di ciascuno contro il compagno, per tutto l’accampamento. L’esercito fuggì…”). Ma queste immagini di guerra non devono distrarci da quello che è invece l’obiettivo del brano e cioè raccontare una felicità grande, che di fatto solo una pace duratura può offrire. È così che il v.4 prospetta la fine di ogni violenza (niente più calzatura e mantello del soldato nemico intriso di sangue toccheranno il suolo d’Israele). Quanto abbiamo bisogno di questi grandi insegnamenti di pace, in un mondo in guerra come il nostro!
Alla fine, ci viene fornita l’immagine più bella e più sintetica, quella che raccoglie tutte le ‘gioie’ precedentemente prospettate. Si tratta della figura del figlio che nasce. Anche il Quarto Vangelo dice che tale gioia è speciale perché fa dimenticare il dolore precedente, quello del parto, che la nuova vita a cui si è di fronte annulla: «La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’ afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).
La nascita di un figlio è un nuovo inizio per tutti, la vita riparte con nuove speranze e possibilità, si ha qualcuno per cui vivere e per cui spendere la propria esistenza, si assiste al miracolo della vita che si espande e vince la morte e il soffrire. Ma oltre a tutte le cose che potremmo riprendere dall’evento di una nuova nascita, il testo biblico propone per questo Bambino anche delle qualità speciali, che dicono la grandezza di un tale dono. Il titolo aulico del v.5 è infatti particolarmente interessante: riprende tutte le qualità dei re, unisce la sapienza di Salomone, il suo essere re di pace con le caratteristiche che son più di Davide (un condottiero potente come un Dio; Padre per sempre, perché a capo di una dinastia che non morirà; ecc…). Il sogno di una monarchia che realizzi dunque un vero regno, perfetto perché in grado di unire tutte le qualità, perfino quelle più lontane: proprio come in Dio, in cui tutti gli opposti vengono riconciliati e raccolti! Ecco dunque la sapienza che porta la pace unita al coraggio e alla giustizia del grande condottiero.
Questa nuova possibilità che viene offerta è quella grazia (ἡ χάρις) di cui parla anche san Paolo. Lui stesso, che non ha mai visto il Gesù storico, “nella carne”, ha acquisito una nuova concezione della vita dalla sua manifestazione al mondo, dalla sua epifania (come dice nella seconda lettura). Il Dio incarnato ha proprio come qualifica quella di insegnare agli uomini (παιδεύουσα ἡμᾶς) come vivere la vita in profondità, come il re-Bambino prospettato da Isaia, perché l’uomo acquisisce quella condotta rappacificata (σωφρόνως καὶ δικαίως καὶ εὐσεβῶς; secondo sapienza, secondo giustizia, con devozione) che gli permette di godere di questa sua esistenza terrena senza farsi schiacciare da desideri sbagliati e dall’empietà (che più che una categoria morale si configura come l’opposto della devozione1, intendendo dunque un’esistenza in cui Dio non ha spazio, non rientra nell’orizzonte umano).
Questa nuova regalità, donata all’uomo da Dio stesso, perché regni sul giardino dell’Eden, torna dunque a compiere quel progetto originario che fin da Genesi era la prospettiva per la quale Dio aveva creato il mondo. Questo progetto era stato rotto dall’uomo fin da principio con il peccato e così anche dalle varie monarchie, nessuna all’altezza del grande compito fissato da Dio. L’evangelista Luca di fatto si prende gioco dei poteri solo umani, e lo fa riprendendo Cesare Augusto e la sua pretesa di fare un censimento per vedere di quanti uomini disponesse e dunque di che forza militare poteva vantarsi. Non è questa la vera regalità che consegna agli uomini il modo giusto di vivere del e nel mondo. Il re-bambino ci insegna qualcosa di diverso, lui è quella luce che libera gli uomini dal loro delirio autodistruttivo, dalle logiche del potere. Ma questa sapienza è nascosta ai grandi mentre si manifesta ai piccoli, come i pastori, gente esclusa in gran parte dalla vita sociale, visti come dei possibili predatori e ladri. Proprio loro però sono ripresi in quanto persone che vegliano, che nella notte cercano una luce.
A chi cerca il Signore, Dio non farà mancare la sua rivelazione nella carne, nella sua storia reale. Che il Signore del Natale torni allora a illuminare la nostra esistenza, per insegnarci quella vita buona che è il progetto che da sempre Dio ha per noi uomini.
Messa del Giorno (Is 52,7-10; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18)
Prologo di Gv
E il verbo si fece carne”; poche frasi nella storia del pensiero mondiale son stati così concise e così dense! Il Vangelo ritenuto per anni gnostico, filosofico, quello con l’immagine più divina di Gesù, in verità ha nel suo repertorio, tra le espressioni più note ed importanti, in un punto saliente come il centro del suo Prologo, un totale elogio dell’incarnazione.
Nella complicata ricerca di una struttura dei primi versetti del Quarto Vangelo, scopriamo infatti che il Prologo si può dividere in due parti, una prima del versetto 14 e l’altra composta dai versetti successivi. La tradizione aveva già notato la centralità del v.14 con il tema dell’incarnazione, proprio perché, nonostante il versetto non si trovi al centro del testo, non si può non riconoscere in quella frase un nuovo punto di partenza del discorso.
Non si tratta però, come proponevano i padri, di operare una secca distinzione tra ‘Logos asarkos’ (Logos non-incarnato) e ‘Logos ensarkos’ (Logos incarnato), come se esistessero due fasi totalmente scisse. Di fatto anche nella prima parte si parla di Gesù Cristo e non solo del Logos asarkos. Centrale è il passaggio tra il 3 e il 4 versetto. Normalmente la traduzione italiana dice: «senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita…». Ma è una traduzione probabilmente scorretta, perché è inutile la ripetizione di “niente è stato fatto di ciò che è stato fatto”; ormai da anni il Nestle-Aland, l’edizione critica del Vangelo, anticipa il punto tra il v.3 e il v.4. Si ottiene così un primo versetto dove si parla dell’importanza del Logos nella creazione: «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto / πάντα δι᾽ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν».
Il v.4 allora si configura non come la ripetizione dell’azione creazionale (che per definizione è unica), ma come il dono della vita che Gesù Cristo realizza.
Gv 14: «ὃ γέγονεν ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν, καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων/ciò che fu fatto in lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini».
La semplice attività di creazione non bastava, non è mai bastata, non c’è stata solo una azione da ‘orologiaio’ (perfetto ma distaccato) da parte di Dio, che poi invece sarebbe intervenuto in un momento più consono inviando il Figlio. In verità il Figlio Gesù da sempre lavora per portare la Vita nel mondo creato. In pratica, il Prologo di Gv non pensa mai il Logos sganciato da Gesù. Ecco perché, sebbene Gv 1,14 sia un versetto fondamentale, non è legittimo parlare di un testo totalmente diviso a metà, con un Logos pre-incarnazione e uno post-incarnazione. In verità, il Logos è Gesù e Gesù è il Logos: questa è la prospettiva giovannea! Non a caso, già prima di Gv 1,14 si introduce il tema della storia, più precisamente nella figura di Giovanni Battista dei vv.6-8 di Gv 1.
Riconosciamo che la prospettiva biblica da sempre unisce il tema creazionale a quello salvifico anche se consideriamo altri passi dell’AT. Già in Genesi Dio cammina nel giardino dell’Eden cercando gli uomini (la prima domanda della Bibbia era, non a caso, «Adamo/Terrestre, Dove sei?»). Questo Dio è da sempre in ricerca dell’uomo e da sempre desideroso di incontrarlo. Il Dio biblico non è mai stato solo il Creatore, lontano, distaccato dalla sua creatura. Se ha creato, lo ha fatto per amore e perché la sua creatura, i suoi figli, ricevessero una Vita piena. Che Dio voglia da sempre dare Vita a ciò che ha creato è un dato ricordato in alcuni passi che hanno ispirato e preparato il Prologo di Gv. Vediamo per esempio in Sir 24 l’elogio che si fa della Sapienza, dono di Dio per gli uomini:
«Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo, e come vapore ho ricoperto la terra. 4Ho abitato nelle altezze del cielo, avevo il trono in una colonna di nubi. 5Io sola ho fatto il giro del cielo e ho passeggiato nel profondo degli abissi. 6Sui flutti del mare e su tutta la terra, in ogni popolo e nazione avevo dominio. 7Ciò nonostante ho cercato un luogo di quiete, qualcuno, nel cui poter sostare. 8Allora il Creatore di tutto mi diede un comando, il mio Creatore mi ha dato una sede (una tenda) per riposare (κατέπαυσεν τὴν σκηνήν μου) e mi ha detto: Metti tenda (κατασκήνωσον) in Giacobbe, sia in Israele la tua eredità.
Questa Sapienza universale, creatrice, già secondo la concezione ebraica aveva cercato un contatto più diretto con un popolo eletto, particolare e cioè il popolo d’Israele.
Il v.14 del Prologo riprenderebbe questa tradizione, come mostra bene l’uso del termine porre la tenda. Aggiungerebbe però una grande novità: questa Sapienza non è solo uno spirito da sempre attivo nell’uomo e non è neppure soltanto la Legge scesa dal cielo come ritenevano i pii giudei, ma l’incarnazione trasforma Dio! Egli si fa uomo, esposto al soffrire e al gioire, all’amore e all’odio. Per questo un tema ricorrente nel Prologo è il rifiuto opposto dagli uomini: «le tenebre non l’hanno accolta… il mondo non lo ha riconosciuto… i suoi non l’hanno accolto… Dio nessuno lo ha mai visto» (vv.5.10.11.18). Ora che si è fatto semplice uomo, cosa succederà a questo Dio così umano che sarà toccato fin nella carne dall’odio delle sue stesse creature? La sua decisione di incarnarsi lo esporrà fino alla morte di croce, ma proprio lì, nel progetto di Dio Padre, si manifesterà in pienezza il suo amore, e per questo la morte del Figlio sarà la dimostrazione della Gloria di Dio, che ha amato gli uomini fino a quel punto.
In questo senso il Figlio porterà a compimento quell’azione da sempre svolta dal Logos, cioè dare Vita, quella vera, quella eterna, quella che redime la vita ‘naturale’, creata, ma inesistente se non redenta da Gesù Cristo. Per questo tutto il Vangelo di Gv non farà che presentare la morte di Gesù come la Gloria di Dio, unica fonte di salvezza:
Gv 3,16: Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. 17 Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Gv 8,28: Disse dunque Gesù: «Quando innalzerete il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono e che non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, queste cose dico.
Gv 12,31-33: Ora c’è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. E quando io sarò innalzato da terra, attrarrò tutti a me». Questo lo diceva per indicare di quale morte stava per morire.
La festa del Natale è dunque l’inizio della redenzione della nostra carne. È l’invito a riscoprire come il fluire stesso della vita sia il segno di una salvezza che non deve attendere per forza un paradiso per cominciare a realizzarsi. Il Vangelo ritenuto erroneamente più ‘filosofico’ e più ‘gnostico’ in verità insegna a cercare ora la Vita Eterna (si pensi a tutte le espressioni usate da Gesù per dire che lui è [e non sarà] fonte di Vita).
Per il cristianesimo la condizione umana è migliore di quella angelica, perché Gesù stesso la scelse! Così tutta la lettera agli Ebrei ricorda come questo tema del rapporto tra uomini e angeli sia paradossalmente a nostro favore. Gli uomini, definiti dal Sal 8 come «coloro che sono poco meno degli angeli», sono in verità a loro superiori, perché in Gesù sono fatti Figli, e a nessun angelo, come ricorda la seconda lettura, fu detto «Io ti sarò Padre», frase usata invece per il Messia, per Gesù e dunque per tutti gli uomini.
A questo punto si dovrebbe sviluppare tutta una riflessione sulla condizione umana come vita nella carne ma non per asservirsi ai suoi soli bisogni ma per vivere in pienezza quella dimensione che il divino stesso ha voluto assolutamente assumere e cioè l’amore nella carne. Perché l’amore è reale solo se, come nella carne, è esposto anche al rifiuto, allo scacco e alla fatica. L’amore degli angeli, sicuramente puro e sincero, è subordinato all’amore nella carne, perché quest’ultimo deve decidersi per Dio (contro una naturale tendenza al rifiuto, già notata nel Prologo) e perché, come ogni amore umano, rischia in prima persona, per l’incomprensione degli altri e soprattutto per gli inevitabili alti e bassi della propria infedeltà.
Ma un amore così non passerà inosservato agli occhi di Dio che altro non cerca se non l’amore, sincero, degli uomini. Imparare a ricambiare questo amore così grande sapendo accettare la nostra umanità, così fragile ma anche così cara a Dio, è l’augurio che il Natale ci porta.
1ἀσέβεια si contrappone volutamente a εὐσεβῶς, devozione.